14 June 2022

Upcycling: il ri-uso migliorativo che ricolloca e nobilita lo scarto

Upgrade del recycling, antidoto al downcycling e rivisitazione creativa del concetto di vintage, quest’abitudine virtuosa sbaraglia la concorrenza del rifiuto e rimette in circolo prodotti, materie prime e oggetti destinandole a nuova, impensata vita.

Spesso, la circolarità è un semplice fatto di prospettiva.

Pensateci… Non credete che a volte basterebbe allargare il campo visivo, uscire dal perimetro delle abitudini consolidate e scardinare quello che si è sempre dato per scontato, per dare spazio a nuove soluzioni?

La domanda è retorica, ma la risposta “” è tutto fuorché banale: darsi la possibilità di guardare ciò che abbiamo tra le mani come qualcosa che ha molte altre possibilità di valere, come una risorsa preziosa per ottenere altro, è un’occasione imperdibile.

Vuol dire salvare lo scarto-a-priori da un destino segnato, attribuendogli una qualità superiore e una inedita funzione. Fare di una cassetta della frutta un complemento d’arredo moderno e ricercato, per esempio.

Ed è proprio con la somma delle piccole intuizioni, che si fa la rivoluzione ambientale.

 

Upcycling: chi l’ha inventato, chi ci ha provato e chi ci è riuscit*

Qualche coordinata, nella strada verso il progresso, è sempre bene averla.

Tanto per cominciare, si dà il caso che questo specifico viaggio sia iniziato dal tentativo pratico per soffermarsi solo dopo sulla necessità di dargli un nome.

La prima volta dell’upcycling risale al 1963, quando la Heineken provò a trasformare le bottiglie di birra consumate e abbandonate in mattoni da costruzione. La campagna fu battezzata Wobo, ma i tempi non erano evidentemente maturi e l’impresa (edilizia) non attecchì.

La seconda volta fu quella buona: dieci anni dopo, gli architetti Charles Jencks and Nathan Silver sdoganarono un nuovo metodo di progettazione, dando agli oggetti e alle materie che da sempre fanno parte del nostro mondo ruoli e significati originali rispetto a quelli con cui siamo abituati a considerarli: nasce così, a tutti gli effetti, l’idea dell’upcycling.

Bisogna dirlo… L’idea di Alfred Heineken era vincente e destinata a sconfiggere il rischio del dimenticatoio. Per questo nel 1994 il termine upcycling venne coniato da un ingegnere meccanico tedesco, Reiner Pilz, che sulle pagine della rivista di architettura e antichità Salvo dichiarò: Quello che ci serve è l’up-cycling, grazie al quale ai vecchi prodotti viene dato un valore maggiore”.

Upcycling, recyling, downcycling e vintage: guida alla lettura 

Di termini sul tema “riutilizzo” ne sono stati coniati tanti, e sarebbe bene non fare confusione.

Il primo appiglio ce lo danno i prefissi, che lasciano intuire valore e disvalore senza mezzi termini. Se “up” sottintende un riuso dal risultato migliorativo, “down” non nasconde il decadimento del prodotto in questione: un’inevitabile perdita di qualità e utilità.

E il riciclo? Da che mondo è mondo è reputato una pratica virtuosa, da far propria e suggerire porta a porta. Recuperare è fondamentale, soprattutto ora che l’emergenza ambientale ci impone di cambiare rotta, ma ha un limite: quello di riportare l’oggetto cestinato alla sua precedente funzione, senza ripensarlo e dargli nuova dignità.

In poche parole: riciclare vuol dire tornare al via. Con il rischio impietoso che a volte le proprietà del materiale si perdano (downcycling, per i più attenti) e le possibilità di utilizzo si assottiglino pericolosamente.

E l’upcycling? Beh, comporta la valorizzazione dello scarto. Terminato un ciclo, ne inizia uno nuovo: sì, ma di valore superiore.

In mezzo sta il vintage, per la moda e non solo. In comune con il riciclo, ha il preservare la stessa funzione di partenza. Ma affine con l’upcycling, ha la capacità di accrescere la percezione di qualità e desiderabilità di quell’oggetto (da veri intenditori).

E come si fa, il riuso creativo?

Altra piccola nota a margine: il riciclo entra in gioco al momento del fine vita e “rassicura” il consumatore circa le sue conseguenze ambientali. Ma le aspettative si esauriscono lì, al momento della consegna nei cassonetti della differenziata.

Riuscire a vedere in un oggetto vecchio l’inizio di una nuova vita, non vuol dire solo aver contribuito a prolungarla. È molto di più, perché tocca da vicino anche i nostri interessi estetici ed emotivi. Saper ridisegnare la storia di un oggetto, immaginando cos’altro potrebbe diventare, è un esperimento appagante. Ci fa risparmiare denaro, sicuramente, ma più di tutto allarga la nostra capacità immaginativa.

Esistono due modi per fare upcycling: pre-consumer e post-consumer. Il consumatore è lo spartiacque delle infinite funzioni che si possono attribuire a un materiale, prima o dopo che sia entrato nelle sue mani. 

Un esempio? Nel primo caso, i produttori possono ricorrere a scarti di tessuto usato per confezionare un capo. Tecnicamente, quindi, quello scarto non ha ancora mai incrociato la vita del consumatore. Nel secondo possono invece modificare vestiti usati, che già hanno avuto a che fare con una persona che li indossasse. E questo lo può fare tanto un brand quanto lo stesso acquirente... al netto di un po’ di inventiva in più.

 

Moda, arredo, ma anche cosmetica: l’upcycling made in Oway

Per restare ancorati ai numeri: lo spreco dei vestiti è stimato in 92 milioni di tonnellate ogni anno. Avete idea della quantità di energie e risorse spese per confezionarli?

E del cibo gettato sistematicamente, nel consumo domestico e nella catena di approvvigionamento della GDO? Ogni anno nel mondo viene sprecato quasi 1 miliardo di tonnellate di cibo, pari al 17% di tutto quello prodotto.

Spesso prodotti alimentari ancora commestibili e destinabili al consumo umano o animale. Solo che, in assenza di un possibile uso alternativo, vanno incontro a smaltimento.

Prendiamo il nocciolino dell’oliva: sfruttata la polpa, verrebbe da pensare che incetta di tutte le proprietà benefiche sia stata fatta. E invece… sebbene il nocciolo non si mangi, si tratta di una miniera di proprietà al pari della polpa.

Per l’industria agroalimentare? No, per quella cosmetica.

Per quel valore ancora vivo, per quella ricchezza che riemerge cambiando la destinazione d’uso, Oway ha scelto di inserire in tutte le famiglie di agricosmetici della nuova linea Styling & Finish un ingrediente attivo proveniente da upcycling.

Da produttori certificati dell’Emilia Romagna, delle Alpi, della Calabria e della Toscana recuperiamo il nocciolo d’oliva, i semi della mela selvatica, la polpa d’arancia e le vinacce: rifiuti, nell’ottica del consumo alimentare, da cui estraiamo elementi funzionali determinanti nelle formulazioni cosmetiche.

Scarti che diventano risorse, rifiuti di enorme valore che tornano in circolo abbattendo il dispendio (incontrollato) di nuove materie prime.

 

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